L’Istituto Superiore della Sanità (Iss) segnala l’esistenza di più di 250 tossinfezioni alimentari in tutto il mondo, con un rischio maggiore in alcune regioni (come l’Africa Centrale, il Sud-Est asiatico, il Medio Oriente e l’America Latina), dove il cibo è più esposto al rischio di contaminazioni dovute a condizioni igieniche precarie, a una cattiva conservazione o a tecniche di cottura poco efficaci, che favoriscono la permanenza sui cibi di virus, batteri e parassiti dannosi. “I più comuni agenti delle tossinfezioni – spiega Laura Rossi, ricercatrice e nutrizionista del CREA, Centro di ricerca Alimenti e Nutrizione – sono i virus intestinali e gli enterobatteri, microorganismi che trovano il proprio habitat ideale nell’intestino degli uccelli, rettili e mammiferi (incluso l’uomo). Le più frequenti intossicazioni, invece, sono dovute a tossine dei batteri (Stafilococcus aureus, Bacillus cereus, Clostridium botulinum) che possono sopravvivere e svilupparsi anche nell’ambiente e trasmettersi all’organismo umano in seguito, per esempio proprio attraverso l’ingestione di alimenti e bevande contaminati». Non mancano poi i rischi connessi all’ingestione accidentale di cibi di per sé tossici, come alcune erbe spontanee, funghi, pesci e crostacei o contaminati da pesticidi, metalli pesanti e da altre sostanze che possono mettere a rischio la salute dell’uomo che non in tutti i Paesi sono soggette alle stesse stringenti norme che ne regolamentano l’uso in Europa.
Le tossinfezioni alimentari possono manifestarsi con sintomi diversi e comportare conseguenze più o meno gravi per la salute (si va dalla cosiddetta ‘gastroenterite del viaggiatore’ fino alla morte). “Per questo motivo – spiega Laura Rossi – è tanto più importante prestare attenzione quando ci si trova lontano da casa, in posti di cui non si conoscono i prodotti e la loro provenienza, né le tecniche di raccolta o produzione e le manipolazioni subite in cucina”. In estate, poi, il rischio aumenta a causa del caldo, che favorisce la proliferazione di microrganismi patogeni, ma anche dell’abitudine sempre più diffusa a recarsi in vacanza in Paesi e località turistiche dove la sicurezza alimentare non è garantita. “In più – prosegue l’esperta – c’è lo svantaggio che, rispetto ad alcuni batteri autoctoni di determinate aree del mondo, l’organismo di un abitante europeo non ha sviluppato anticorpi e quindi risulta più vulnerabile. Bisogna comunque considerare che la cottura abbatte drasticamente il rischio di infezione, la maggior parte dei microrganismi è infatti sensibile al calore e, in alcuni casi, viene neutralizzata già alla temperatura di 65°C. Pertanto, la prima regola da osservare è non mangiare alimenti crudi o poco cotti”.
I frutti di mare (come ostriche, vongole, cozze e capesante) filtrano le acque dei fiumi e dei mari in cui crescono. In queste acque, soprattutto dove il sistema fognario è inadeguato, è spesso presente un genere di batteri detti Vibrio, il più noto dei quali è il Vibrio cholerae, responsabile del colera. La specie responsabile delle tossinfezioni dovute all’ingestione di molluschi o crostacei crudi è invece il Vibrio parahaemolyticus, che causa sintomi lievi a carattere prevalentemente gastroenterico, ma nei casi più gravi può danneggiare la mucosa intestinale e causare setticemia. Il pesce crudo in generale può risultare estremamente pericoloso se non si sottopone al processo di abbattitura professionale, che prevede di portarlo rapidamente a una temperatura di -20°C e di lasciarvelo per almeno 24 ore. Non sempre è possibile ottenere lo stesso risultato con il congelatore domestico, né ovviare al problema con la marinatura in una soluzione a base di ingredienti acidificanti e conservanti (come aceto, limone, sale, zucchero). Quest’ultima, se correttamente eseguita, è in grado di abbassare il pH degli alimenti tanto da inibire l’attività di molti microrganismi, ma non è in grado di neutralizzare l’istamina (potenziale responsabile della cosiddetta sindrome sgombroide), né di eliminare patogeni come il batterio Shigella, il virus dell’epatite A, l’Escherichia coli e l’Anisakis, che causano sintomi più o meno gravi come disturbi gastrointestinali, rossore cutaneo, febbre e spossatezza, ma possono anche condurre alla morte.
La carne cruda o poco cotta può essere veicolo di batteri normalmente presenti nell’apparato intestinale di animali sani, che entrano in contatto con la carne a causa di una macellazione inadeguata o di una contaminazione crociata successiva, diventando fonte d’infezione. Le più frequenti sono quelle da Escherichia coli, Salmonella, Campylobacter e Clostridium perfringens. Un rischio in più è rappresentato dai parassiti che possono annidarsi direttamente nel tessuto muscolare degli animali (come il Toxoplasma gondii, la Taenia e la Trichinella) oppure attaccare la carne già lavorata ma mal conservata (come per l’ameba e la Giardia intestinalis). «Il rischio non è limitato a questi cibi, ma si estende a qualsiasi ingrediente utilizzato in cucina se non si osservano le dovute norme igieniche relative alla disinfezione del piano di lavoro e degli utensili utilizzati per lavorare la carne». I salumi e gli insaccati a stagionatura breve (inferiore a 30 giorni), comportano gli stessi rischi della carne fresca, soprattutto se prodotti in modo artigianale o domestico. Se proprio non vi si può rinunciare, meglio optare per gli affettati cotti e, per limitare il rischio di cross-contaminazioni, è meglio evitare quelli sfusi serviti sui buffet o venduti al banco in gastronomie e macellerie e preferire quelli confezionati industrialmente.
Le uova possono diventare anch’esse un vettore di Salmonella, se deposte da galline il cui sistema ovarico è stato infettato dal batterio o conservate a contatto con potenziali agenti contaminanti. «Poiché il batterio può essere presente sul guscio, ma anche all’interno dell’uovo, il modo migliore per non correre rischi è consumare solo uova cotte in modo che anche il tuorlo superi la temperatura minima 70°C, necessaria per ucciderlo. In caso contrario, la temporanea riduzione della carica batterica non impedirà comunque l’infezione, una volta che il patogeno, giunto nell’intestino dell’ospite, troverà le condizioni ambientali ideali per ricominciare a proliferare».
Il latte ha un elevato contenuto di acqua e proteine che lo rende molto vulnerabile al deterioramento e alla proliferazione di batteri dannosi (in particolare dell’Escherichia coli). La maggior parte è distrutta dalla pastorizzazione, ma non bisogna sottovalutare il rischio di proliferazione batterica nei prodotti manipolati senza il rispetto delle giuste condizioni igieniche o conservati in modo non ottimale. “Per questo, quando ci si trova all’estero, meglio bere solo latte confezionato, pastorizzato o sterilizzato, oppure sottoposto bollitura, e limitare al minimo il consumo di latticini e formaggi prodotti con latte crudo (come l’esotico kefir)”, conclude l’esperta.
Frutta e verdura possono essere contaminate, già prima della raccolta, da pesticidi, batteri e parassiti presenti nell’acqua di irrigazione o nei fertilizzanti organici utilizzati nei campi, ma possono entrare in contatto con eventuali patogeni anche in seguito. “Per questo – chiarisce Rossi –, quando si soggiorna in Paesi lontani, bisogna stare alla larga da verdura cruda e frutta servita già tagliata, optando piuttosto per contorni cotti e per la frutta intera e con la buccia, seppur da mangiare rigorosamente sbucciata. Attenzione inoltre ai succhi e ai sidri, da consumare solo se pastorizzati”. Anche l’acqua del rubinetto e delle fontanelle rappresenta un potenziale pericolo, soprattutto nei Paesi con condizioni igieniche precarie o con terreni inquinati, falde acquifere e acquedotti poco controllati dal punto di vista microbiologico. Meglio dunque acquistare acqua imbottigliata e, ovviamente, stare alla larga dal ghiaccio.
Lo street food è uno dei modi più gustosi e divertenti per conoscere la gastronomia locale e approfondirne la cultura, ma è anche la più rischiosa, perché nella maggior parte dei casi i carretti ambulanti e i banchi del mercato che vendono cibo sfuso non seguono le stesse norme sanitarie dei ristoranti e spesso non possono garantire il mantenimento corretto della catena del freddo, necessaria a prevenire lo sviluppo e la moltiplicazione di alcuni microrganismi, che per essere tossici necessitano di una popolazione numerosa. “Se proprio non si riesce a resistere al fascino delle bancarelle – sottolinea l’esperta –, meglio optare per i cibi cotti al momento e serviti caldi e stare alla larga da preparazioni cotte ma servite a temperatura ambiente o quelle elaborate e manipolate, che hanno subito molti passaggi prima di arrivare nel piatto, come paté, creme e glasse”.
Se la prevenzione non basta, un consiglio utile è quello di mettere in valigia fermenti lattici ed eventuali integratori di sali minerali e reidratanti orali, in modo da ristabilire l’equilibrio della flora batterica e degli elettroliti alterato da eventuali sintomi gastrointestinali (come diarrea e vomito). «Ma – consiglia Rossi – in caso di sintomi più importanti come febbre alta o presenza di sangue nelle urine o nelle feci, resta tassativo il ricorso al medico per evitare conseguenze gravi».
Articolo di: “ilfattoalimentare.it”