Già varcando la soglia di «Carcasse» — che, se non fosse chiaro dal nome, è un ristorante di carne — si percepisce l’atmosfera autentica, al limite del macabro, di una macelleria. Appesi ai muri di cemento dell’edificio industriale di Sint-Idesbald, nord del Belgio, ci sono ganci di ferro, coltelli, mannaie e prosciutti interi che penzolano davanti alle piccole piastrelle di ceramica bianchissima. Padrone di casa è Hendrik Dierendonck, figlio d’arte di Raymond, considerato oggi uno dei più brillanti macellai in Europa. Che nel 2015 ha deciso di affiancare all’attività di famiglia il ristorante, che ha dopo poco conquistato una stella Michelin. Una steak house del futuro, la definisce lo stesso Dierendonck. Niente salse, niente patatine fritte. Solo tantissime verdure di stagione ad accompagnare le ricette studiate dallo chef Anthony Snoeck. Raffinate, raffinatissime. Che quasi si scontrano con la forza bruta, più che esibita, delle usanze in macelleria. In sala, per dire, capita spesso di veder passare il carrello con i tagli di carne cruda in arrivo dal negozio dei Dierendonck. O che i camerieri servano ai tavoli una grossa testa di maiale, incoraggiando i commensali a mangiarla con le mani. «What you see is what you get», è il motto di Hendrik, che sembra rivolto a chi si scandalizza di fronte a tale bestialità: «Quello che si vede fare qui è quello che succede normalmente per ottenere ciò che finisce in tavola». È che, spiega lui, abituati ormai agli acquisti fatti per lo più al supermercato, ci siamo dimenticati di ciò che sta dietro la confezione con le fettine di vitello pronte per essere passate in padella. Ci saremmo, cioè, scordati — sostiene anche Camas Davis, americana, autrice del nuovo Killing it. An education (Penguin Press) — quel legame naturalmente indistricabile tra «la vita, la morte e la cena». Uccidere un animale per fame è la storia del mondo, insomma, dice Davis. Al di là di alcune ingenuità del suo romanzo-saggio («troppo spesso le intuizioni di Davis sembrano più adatte all’idiota del villaggio di Agen che a un lettore americano nel 2018», ha scritto Cree LeFavour sul New York Times), quello che salta all’occhio è ciò che sta facendo Davis in un periodo storico in cui le diete vegetariane (per salute o per etica) hanno sempre più successo. A Portland, Oregon, ha fondato nel 2010 il «Meat Collective», una scuola di carne in cui si organizzano lezioni pratiche di macellazione e taglio. In ciascuna classe ci si sporca di sangue: vengono coinvolti piccoli allevatori locali che agli studenti vendono direttamente animali interi. Il prossimo corso, per esempio, insegnerà a trattare la carne di tacchino. Il costo non è irrilevante, 185 dollari, ma ciascun iscritto, assicura la scuola, riceverà il proprio animale su cui lavorare e tornerà a casa con tutte le parti ottenute, oltre a un bel po’ di ricette da giocarsi durante le feste di Natale. Insomma, l’obiettivo dichiarato «è contribuire a far crescere in America una comunità sempre più ampia di onnivori informati che sostengono la produzione e il consumo responsabile di carne».
Ecco, dunque, la teoria dei neo carnivori che crescono nel mondo: chef ma anche macellai, produttori, attivisti, convinti tutti che il consumo di carne debba cambiare. All’insegna, soprattutto, del meno ma meglio. Idee che hanno trovato spazio anche nel Butcher’s Manifesto, il cosiddetto manifesto del macellaio nato grazie all’attivista danese Michael Museth folgorato dalla lettura di Crafted meat del tedesco Hendrik Haase. Dal documento, firmato nel 2016 a Copenaghen dai migliori artigiani europei, è nata ora un’associazione non governativa internazionale che avrebbe lo scopo di far riscoprire la stima verso un mestiere molto bistrattato. Anche perché, del resto, aumentano le denunce di violenze negli allevamenti intensivi di mezzo mondo. Una delle ultime in ordine di tempo, in Italia, quella dell’associazione Essere Animali: a settembre ha fatto aprire un’inchiesta per maltrattamenti dalla procura di Ancona dopo aver registrato con telecamere nascoste un video in un allevamento di suini a Senigallia. Ma è proprio partendo dalla stessa premessa che i nuovi carnivori si dichiarano responsabili: come i vegani oltranzisti, anche loro sostengono il diritto degli animali a una vita più sana possibile. «Bisogna mangiare carne da bestie cresciute onestamente — è convinto Dierendonck —. Io lavoro solo con allevatori che seguono questa filosofia. Pascolo libero, senza stress, cibo buono». Di aziende piccole e locali, di cui si conosce l’attività. E che allevano razze da riscoprire, dimenticate perché non adatte al sistema intensivo. «In futuro dovremmo lavorare di più con gli animali più anziani. E tornare a usare, per esempio, la mucca di razza West-Flemisch sia da latte che da carne». Che Dierendonck serve al suo ristorante. Si tratta del bovino rosso delle Fiandre occidentali, che ha uno stomaco grande particolarmente adatto alla digestione dell’erba più che del mais. Una volta veniva allevato per produrre sia latte che carne, ma dagli anni Settanta è stato cresciuto per uno scopo solo, massimizzando così la produzione, a discapito della qualità e del benessere animale. Ma ora, con Slow Food in testa, alcuni piccoli allevatori europei stanno provando a tornare all’antica tradizione. «La West-Flemisch — spiega Dierendonck — prima può essere utilizzata per due o tre cicli riproduttivi, evitando la iperproduzione di latte. Poi la si alimenta solo con erba e fieno per 6 o 7 mesi. E così, alla fine, si ottiene una carne molto gustosa e onesta», assicura. «Ecologicamente migliore». E se poi uccidere un animale è un sacrificio — «mangiare carne significa comunque compiere un massacro», dice Camas Davis — della bestia non si può, non si deve, buttare nulla.
La chiave è, cioè, la cosiddetta filosofia «dal naso alla coda», di cui già aveva parlato Fergus Henderson, re dei cuochi d’Inghilterra, nel suo Nose to Tail Eating: A Kind of British Cooking, uscito per la prima volta nel 1999. E che con il suo messaggio torna oggi prepotentemente alla ribalta. «La più grande lezione che abbia mai avuto è stata quando avevo 16 anni — racconta ancora Dierendonck —. Dopo aver lavorato un po’ nella macelleria di mio papà, me ne andai a giocare con lo skateboard. Ma, tornato a casa, mio padre mi sbattè alcune ossa sul tavolo. Dovevo pulirle tutte di nuovo perché non avevo finito bene il mio lavoro. Mi disse: “Ragazzo mio, non dimenticare mai che un animale viene ucciso per noi e un contadino ha lavorato molto per allevarlo”. Perciò è nostra responsabilità rispettare ogni singolo pezzo di carne». Dunque bisognerebbe mangiare tutto, anche le parti considerate meno nobili. Del pollo, per esempio: testa e zampe (che una volta si usavano per il brodo e oggi si vendono raramente), oltre a petto e coscia. Del maiale: testa, lingua, frattaglie, non solo i tagli più pregiati come coppa, filetto, lombo, coscia. Privilegiando la qualità a discapito della quantità. «Io mangio tanta carne e lo faccio per lavoro. Ma è giusto ridurne il consumo: l’importante è scegliere la migliore, evitando quella piena di acqua e additivi. Questo significa consapevolezza». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Andrea Magelli, fondatore con la moglie Sara Roversi della catena bolognese di hamburger gourmet «Welldone». Unica in Italia a servire, da poche settimane, Beyond Meat, il burger di carne vegetale inventato da Joseph Puglisi, professore di biologia all’università di Stanford (appena insignito del premio City of Food Master promosso da Fondazione Fico con Caab al Bologna Food Award 2018). «Nonostante vendiamo hamburger, io e Sara mangiamo carne una o due volte alla settimana. Però scelta con attenzione».
Del resto i numeri parlano chiaro. In alcuni Paesi del mondo si mangia troppa carne. Secondo le stime della Fao, il consumo globale è aumentato di 5 volte negli ultimi 70 anni, passando dai 45 milioni di tonnellate del 1950 agli attuali 250 milioni. Un consumo destinato a raddoppiare entro il 2050. Diversi, però, i numeri italiani: secondo l’indagine svolta da una commissione di studio istituita dall’Aspa e pubblicata nel 2017 sui consumi reali di carne, in Italia si mangiano in media 104 grammi al giorno. Meno, dunque, di quello che si pensi. «La metà circa del dato che solitamente si prende come riferimento, quello sui consumi apparenti che la Fao calcola tenendo presente anche tutte le parti non edibili», spiega Andrea Bertaglio, autore di In difesa della carne, uscito la scorsa settimana per Lindau provando a smitizzare stereotipi e luoghi comuni sulle proteine animali.
Primo tra tutti, che la carne che mangiamo sia piena di antibiotici. «Molti non sanno — spiega Bertaglio — che negli allevamenti europei l’uso di antibiotici è subordinato al rispetto di regole molto precise, mentre gli ormoni della crescita sono vietati da tempo, diversamente dagli Stati Uniti o dal Canada. In Italia, poi, i controlli sono ancora più stringenti». Meglio, dunque, consumare solo carne di cui si conosce la provenienza. «Noi, per dire, acquistiamo e cuciniamo quella che arriva da allevamenti d’alpeggio», assicurano Magelli e Roversi. Quest’ultima fondatrice anche del Future Food Institute, organismo che si occupa di innovazione del cibo e che sta mappando le soluzioni alternative alle proteine animali nel mondo (come il burger vegetale di Puglisi). Il paradosso, ma solo apparente, è che quando hanno aperto la loro prima hamburgeria nel 2013 mostrarono agli invitati alcune scene di Love meat tender. Un cortometraggio sull’impatto ambientale degli allevamenti intensivi. Come dire: pensare al pianeta e mangiare carne non è una contraddizione. Alla fine, però, resta un dubbio: solo chi può spendere di più può permettersi il lusso della filosofia neo carnivora? «Ma da qui non si esce — è convinto Magelli —. L’alternativa è mettere nel piatto ingredienti scadenti. La qualità deve avere un giusto prezzo». Del resto, non vale solo per il cibo.